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AZIONI E REAZIONI: PREVALENTEMENTE INCONSCE

Il concetto di cognizione può avere diverse sfumature di significato in base all’ambito di applicazione.

  • In ambito neuroscientifico, si riferisce alla descrizione del legame tra le attività neuronali e il comportamento,
  • in ambito psicologico si riferisce ai processi di livello più alto, fondamentali per la formazione di un’esperienza conscia (da cui deriva il taglio della psicoterapia cognitiva o cognitivo-comportamentale[1]).
  • Nel linguaggio comune esso si riferisce al pensiero, al ragionamento applicato ai dati grezzi forniti dai sensi e attraverso il quale si può conoscere il mondo.

Deriva dal latino cognoscere, che significa conoscere, ma anche apprendere e unirsi sessualmente. Nella sua etimologia, quindi, si intuisce questa doppia valenza della conoscenza in seguito all’acquisizione di nozioni, esperienze, ma anche alla continua potenzialità di apprendimento, che, forse, necessita di un’unione fusionale con il tema da conoscere. In effetti, come vedremo, la conoscenza non necessariamente coincide con la consapevolezza, anzi include l’inconscio, vale a dire che esso stesso è un ingrediente fondamentale del conscio, della consapevolezza. 



Storia ed esempi

L’inconscio guida il comportamento: da Freud a Helmholtz

Un tempo si riteneva indiscutibile che il pensiero e il ragionamento fossero sottoposti al controllo volontario conscio e che, quindi, non fosse possibile avere cognizione di un qualcosa se non in uno stato cosciente. Alla fine del XIX secolo Freud ipotizzò, invece, che la maggior parte dei comportamenti umani fosse guidata da motivazioni inconsce. Helmholtz, qualche tempo prima, fece degli sperimenti psicofisici quantitativi per misurare la velocità con cui i segnali nervosi vengono condotti attraverso i nervi periferici. Dimostrò, contrariamente a quando si credeva allora, che la conduzione non è istantanea, ma impiega del tempo e i tempi di reazione sono ancora più lenti, ciò comportava che fra lo stimolo sensoriale e la sua percezione conscia dovesse intervenire un’elaborazione cerebrale, e pertanto Helmholtz concludeva che la maggior parte di ciò che arriva al cervello non arriva allo stato cosciente e ciò che si percepisce è mediato da inferenze inconsce. Questa teoria fu estremamente impopolare, poiché si riteneva che le decisioni potessero essere basate soltanto su inferenze consce. Tuttavia, a partire dal XX secolo, si cominciarono ad accumulare una serie di prove in favore dell’idea che la maggior parte dei processi cognitivi fossero inconsci. Studi successivi sull’intelligenza artificiale hanno evidenziato quanto siano complessi in realtà i sistemi percettivi che, nel quotidiano, appaiono semplici, infatti la nostra percezione delle cose sembra istantanea e diretta mentre l’elaborazione degli stessi è, come detto, notevolmente complessa.

Visione cieca e negligenza unilaterale

Ad oggi, la maggior parte dei neuroscienziati ritiene che le percezioni sono processi coscienti mentre non lo sono i processi cognitivi. A comprova di ciò vi sono gli studi sui pazienti con lesioni cerebrali specifiche. Per esempio, i pazienti affetti da visione cieca hanno lesionata la corteccia visiva primaria, pertanto sostengono di non vedere nulla nell’area visiva corrispondente, tuttavia, se si chiede loro di indovinare cosa vedono, sono in grado di rilevare proprietà visive semplici, come il movimento o il colore, tanto da non essere ipotizzabile che sia casuale. Questi pazienti non posseggono alcuna informazione sensoriale ma posseggono informazioni inconsce circa gli oggetti tali da guidare il loro comportamento. Ecco un esempio di come

inferenze, informazioni inconsce possano guidare il comportamento nonostante lesioni cerebrali specifiche,

ciò fa supporre che, anche in assenza di lesioni cerebrali,

alcune informazioni che non decodifichiamo consapevolmente
possono influenzare il nostro comportamento, la nostra reazione agli eventi.

La componente Io-somatica inconscia è proprio quella da rendere consapevole nel lavoro formativo a se stessi: nel momento in cui non ne abbiamo contezza, anche se non esiste per la nostra consapevolezza, non vuol dire che non agisca.

Nel caso della negligenza unilaterale dell’emisfero cerebrale destro, i pazienti, pur conservano intatta la visione, non sono in grado di riconoscere la zona spaziale sinistra, tanto che, mostrando loro due immagini di case dove è rappresentato soltanto in una di esse un incendio nella zona di sinistra, riferiscono di vederle uguali, ma alla domanda di scegliere in quale delle due vivrebbero, rispondono di preferire quella in cui non è presente l’incendio. Ciò vuol dire che, anche in questo caso, esistono delle informazioni presenti non a livello cosciente. Questi sono esempi delle numerose prove empiriche sull’esistenza di processi cognitivi inconsci, in aggiunta a quelli legati all’introspezione. In Sigmasofia, sappiamo che Io e soma sono lo stesso processo, e questo è uno dei moltissimi esempi di tale funzionamento. Inoltre, ciò conferma i due aspetti opposti-complementari etimologici della cognizione,

il conscio e l’inconscio:
il conosciuto e le informazioni non consapevolizzate.

Correlati neuronali della coscienza e teoria conseguente al vissuto Sigmasofica

Attualmente, in merito a ciò esiste un programma di studio neuroscientifico sulla ricerca dei correlati neuronali dello stato di coscienza, iniziato da Crick e Koch, al fine di dimostrare l’esistenza di differenze qualitative tra le attività neurali legate ai processi inconsci e consci. Ciò potrebbe fornire la risposta su quale sia la funzione dello stato di coscienza, e per la comprensione di patologie neurologiche e psichiatriche potendo individuare i processi neuronali responsabili dell’alterazione dei processi cognitivi. A tal proposito la Sigmasofia ha elaborato la teoria, conseguente al vissuto, per cui la coscienza è un campo di forza energetico, autopoietico, che utilizza il sistema neurale, da esso stesso creato, per auto-riconoscersi, consapevolizzarsi, attraverso le funzioni psichiche, Io-somatiche.

Cecità al cambiamento e auto-consapevolezza Io-somatica

Nelle precedenti lezioni abbiamo già affrontato come la vista di immagini ambigue (per esempio la figura di Rubin o il cubo di Necker) possa determinare una variazione percettiva in assenza di variazioni di stimoli esterni, ma è possibile anche cambiare la stimolazione sensoriale senza che il soggetto se ne accorga, è questo il caso per esempio della cecità al cambiamento. In questo caso, vengono mostrate due immagini complesse molto simili tranne che per un evidente particolare, generalmente, in un soggetto normale, sono necessarie numerose osservazioni prima di accorgersi della differenza che, una volta fatta notare, appare in modo evidente. Ciò significa che se anche alcune zone specifiche del cervello sono deputate alla rilevazione di caratteristiche specifiche, l’attività di tale zona specializzata è necessaria ma non sufficiente a evocare esperienze consce. Nell’esempio appena descritto, la presa di coscienza della differenza tra le due immagini implica l’attivazione di un’ulteriore zona cerebrale oltre a quella specifica, corrispondente alle aree parietale e frontale. Ciò è importante per la comprensione di alcuni comportamenti, come per esempio la scelta di vivere nella casa senza incendio riferita dai soggetti affetti da negligenza unilatere che, come detto, pur conservando intatta la via visiva, non sono coscienti dell’emi-spazio controlaterale alla sede della lesione. Ciò vuol dire, quindi, che altre vie sensoriali possono determinare inferenze inconsce tali da influenzare il comportamento. Questo potrebbe spiegare lo stupore a volte di alcune nostre reazioni, o non saperle motivare del tutto.

Uno degli scopi delle Autopoiesi Io-somatiche, infatti, è proprio quello di rendersi consapevoli di aver agito o reagito con specifici comportamenti e viverne le motivazioni, portando alla luce introiezioni comportamentali di cui, appunto, non si aveva contezza ma che agivano da dentro.

Allo stesso modo, in assenza di lesioni cerebrali, stimoli che non emergono a livello cosciente possono risvegliare specifiche reazioni. Per esempio, se viene proiettata un’immagine di un’espressione feroce, immediatamente seguita da uno stimolo diverso, viene comunque prodotta la relativa reazione costituita dall’aumento della conduttanza della pelle dovuta al sudore; così come è possibile evitare istintivamente un ostacolo con un salto e solo successivamente rendersi conto dell’oggetto che lo ha determinato. Questi sono altri esempi di come ci sia una

consapevolezza somatica non sempre simmetrica con quella psichica.

A volte è una modalità funzionale ottimale, perché permette risposte automatiche senza impiegare un tempo di riflessione che potrebbe metterci in pericolo (seguendo gli esempi, non scappare o inciampare, o semplicemente non pensare a quali muscoli contrarre e decontrarre per deambulare o respirare ecc.), è quello che comunemente denominiamo istinto, che è appunto diretta emanazione dell’innato. L’acquisito, non consapevole dell’innato, e identificato soltanto nei suoi contenuti, è ciò che determina gli ostacolatori (appunto alla ricongiunzione consapevole con l’innato), ed è proprio il lavoro di disidentificazione progressiva (quando l’identificazione non è momentaneamente funzionale) ciò che le Autopoiesi Io-somatiche e olosgrafiche tentano di innescare.

Prosopoagnosia: riconoscimento inconscio e omeostasi Io-soma

Ed ancora, nella prosopoagnosia, il paziente non è in grado di riconoscere le facce, tuttavia, quelle dei familiari, poiché evocano delle risposte emotive, innescate dall’attivazione del sistema nervoso autonomo, in qualche modo vengono riconosciute, infatti le risposte di questi pazienti non sono casuali quando si chiede loro se le facce che sono state loro mostrate sono di persone familiari o no. Inoltre, poiché il disturbo è specifico per il sistema visivo e le facce, il paziente può riconoscere il familiare dalla voce o dall’andatura. Si può affermare che i pazienti affetti da prosopoagnosia sono ancora in grado di riconoscere le facce, ma non in maniera conscia. È un altro esempio di come in realtà pur essendo le varie aree cerebrali implicate nel controllo delle relative funzioni, è sempre l’insieme, il funzionamento complessivo quello che, in qualche modo, sopperisce a eventuali carenze, in conseguenza del mantenimento omeostatico, tendente all’autorigenerazione (è il campo di forza autopoietico, inoltre, quello che è in grado di innescare la neuroplasticità).

La sindrome di Capgras presenta modalità opposte: il paziente è convinto che un familiare assomigli a chi dice di essere ma in realtà è un’altra persona, questo suscita reazioni di rabbia tanto da voler mandare via da casa per esempio il proprio marito o la propria moglie. Può sfociare in rari casi in violenza, come in un particolare caso estremo in cui un paziente accusò il suo patrigno di essere un robot e lo decapitò per cecare le batterie e i microfilm che si era nascosti nella testa. In questa sindrome, la via di analisi relativa al riconoscimento delle facce è intatta, ma non funziona quella che media le risposte emotive, di conseguenza i pazienti riconoscono le persone che vedono, ma poiché è mancante la risposta emotiva, ritengono che vi sia qualcosa di fondamentalmente sbagliato. Ciò è stato in parte confermato dall’osservazione che questi pazienti non presentano le normali risposte del sistema nervoso autonomo alla vista di facce familiari, la conclusione che allora non si tratta del familiare ma di un impostore rappresenta la risposta cognitiva a quest’esperienza anormale che ne autogiustifica la reazione. La sindrome appena descritta rappresenta l’altra metà della stessa medaglia:

quando il flusso del campo istintivo-emozionale
non è collegato consapevolmente alla componente psichica,
il sistema Io-somatico risulta discrasico proprio perché
ostacolato dalla presa di consapevolezza di processi inconsci.

In questo specifico caso, il campo istintivo-emozionale è ostacolato, bloccato da qualche elemento inconscio che agisce fortemente senza che la persona possa rendersi conto di ciò, tuttavia una componente consapevole si accorge che c’è qualcosa che non va, ma la usa come giustificazione del proprio comportamento invece che come elemento da auto-indagare. Ovviamente, in questa patologia tale meccanismo è esasperato, tuttavia possiamo riconoscere lo stesso meccanismo anche nel proprio quotidiano, quando ci autoassolviamo o automotiviamo una reazione, un comportamento, come l’unico possibile senza averne indagato le motivazioni profonde. Il lavoro di formazione consiste proprio, come detto, nella presa di consapevolezza di tali processi e, se ritenuto necessario, per attuarne la trasformazione, la transmutazione.

Il controllo delle nostre azioni è prevalentemente inconscio

Spesso confondiamo la sensazione di avere le nostre azioni sotto controllo con l’averne consapevolezza. In realtà non è esattamente così, o meglio, ci sono molti aspetti delle azioni che noi stessi compiamo di cui non abbiamo contezza. Ciò è maggiormente evidente con la descrizione di una particolare (e rara) patologia denominata agnosia delle forme, ossia l’incapacità di riconoscere gli oggetti dalla loro forma. Noto fu il caso di una paziente alla quale fu chiesto, come sperimentazione, di infilare una tavoletta in un’apposita fessura, ciò avrebbe implicato la capacità di saper orientare correttamente la tavoletta rispetto alla posizione della fessura. Contrariamente a quanto ci si sarebbe aspettato, ella lo fece accuratamene e anche con rapidità (pur non sapendo riconoscere gli oggetti mostrati), ciò significa che le sole informazioni visive (inerenti all’identificazione consapevole della proprietà di detti stimoli) non sono sufficienti, ma vi sono altri meccanismi visivi di cui il soggetto non è consapevole. Al di là delle patologie neurologiche, nel quotidiano a tutti è capitato di reagire rapidamente e congruamente a un pericolo rendendosi conto poco dopo delle azioni motorie compiute, o ancora, di afferrare rapidamente e precisamente un oggetto senza rendersi conto sul momento delle informazioni percettive e motorie necessarie.

Autopoiesi Io-somatiche e l’indagine sulle motivazioni inconsce

Possiamo traslare fedelmente questo meccanismo nell’interiorità. Infatti, durante il percorso formativo e, in particolare con la pratica delle Autopoiesi Io-somatiche, ci si rende ben presto conto che la sensazione di avere

il controllo delle proprie azioni
non coincide necessariamente
con averne consapevolezza
.

Per esempio, può accadere che, in sala (così nella vita), un’azione dell’altro susciti ira ma che non vi si risponda con l’emozione che realmente si sta sentendo (per questioni d’immagine, di non assunzione ecc.) pensando di stare controllandola, in realtà, se non si conosce in profondità la motivazione del risuonare proprio di quella corda interiore, non è reale controllo da consapevolezza, ma esattamente da inconsapevolezza, ossia una copertura di un possibile accesso a una reale conoscenza di sé che può declinarsi come trasformazione, transmutazione di quello stato che non si vuole produrre, più che controllare. Stando all’esempio, se non si applica il lavoro di auto-indagine, anche un’eventuale reazione aggressiva può innescarsi senza che le motivazioni profonde siano coscienti. O ancora, la non consapevolezza di stimoli, informazioni che potenzialmente l’altro, l’ambiente circostante veicolano, semplicemente non vengono colti e quindi sfruttati. Questo è dovuto all’identificazione-fissazione nei parametri limitati dal proprio livello di consapevolezza che, però, possiamo via via ampliare man mano che il percorso auto-formativo prosegue. Tuttavia la reazione immediata, senza pensiero, quando direttamente collegata al campo istintivo-innato, è sempre risolutiva. E ancora. Pensiamo di essere consapevoli di un’azione, di un movimento, perché decidiamo di compierlo. Ma in realtà di quali aspetti di un’azione siamo realmente coscienti?

          A questo proposito sono d’aiuto degli esperimenti in cui veniva misurata l’attività cerebrale (EEG) dei soggetti ai quali veniva chiesto di muovere un dito. È stato rilevato che l’attivazione dell’area cerebrale avviene circa 1 sec prima che il soggetto compia il movimento, ma la sensazione di voler muovere il dito ha luogo qualche centinaio di millisecondi dopo l’attività cerebrale rilevata (potenziale preparatorio). Questa variazione dell’attività elettrica neurale corrisponde al passaggio di localizzazione dell’area cerebrale coinvolta nell’esecuzione vera e propria del movimento in esempio. Ciò significa che non siamo consapevoli di un movimento fin quando non è stato preparato un piano motorio specifico e, quindi, che le azioni sono in essere prima che il soggetto sappia, si renda conto di voler compierle e, ancora, ampliando il concetto, che le decisioni possano essere prese in maniera inconscia. I risultati di questi esperimenti hanno dato infatti origine a molti dibattiti sia in ambito filosofico che neuroscientifico.

Intelligenza somatica oltre che psichica

Tali studi misurarono anche il tempo in cui il soggetto si rendeva conto di

iniziare il movimento vero e proprio,
che è successivo a quello di voler farlo.

Questi studi dimostrano ulteriormente di quanto in realtà non siamo consapevoli di molti aspetti delle nostre azioni, dei nostri comportamenti, pur essendo convinti di esserlo. È infatti la presa di coscienza di questa larga fetta di inconsapevolezza la prima cosa di cui ci si accorge iniziando il percorso formativo a se stessi. Il fatto che le aree cerebrali si attivino prima di decidere un’azione (o una reazione) e di iniziarla solo dopo voler farla ha molte implicazioni. La prima evidenza è che, appunto, esiste una sorta di intelligenza somatica oltre che psichica (come avviamo visto per esempio anche per la prosopoagnosia) che in realtà sono lo stesso processo ma che, ancora una volta, il disalinneamento tra acquisito e innato rende scollegata, determinando quel ritardo che potrebbe essere azzerato, come avviene, per esempio, per l’istinto, l’intuito e altre funzioni più vicine all’autopoiesi.

Tutto è emanazione dell’autopoiesi,
quindi in realtà non esiste qualcosa di lontano o vicino ad essa,
ma può esserlo il livello di consapevolezza.

Una conseguenza del lavoro formativo è che proprio per aver sfrondato molte sovrastrutture acquisite (dopo averle vissute, riconosciute, penetrate e risalite), si instaura una sorta di immediatezza tra pensiero e azione, proprio perché l’Io è meno identificato nei contenuti (ostacolanti) ed è quindi più corrispondente alle funzionalità. Inoltre, ampliando la propria consapevolezza, si limitano le inferenze inconsce.

          L’attimo in cui si diviene consapevoli di aver iniziato un movimento interviene circa 80ms prima che inizi il movimento, mentre il feedback sensoriale relativo al movimento interviene circa 100ms dopo l’inizio, quindi, un tempo troppo lungo affinché la consapevolezza del gesto sia basata sulle informazioni sensoriali, pertanto possiamo concludere che la consapevolezza si basi più sulle aspettative che sulle informazioni reali vere e proprie. Infatti, in genere si rimane sopresi quando le proprie aspettative non corrispondono alla realtà (per esempio quando valutiamo un oggetto più leggero di quanto in realtà non sia). Nell’interiorità avviene esattamente la stessa cosa. Le esperienze che facciamo, o meglio, quanto delle esperienze tratteniamo, condizionano l’approccio verso quelle future, proprio per l’aspettativa; ma, se nel soma/sistema nervoso ciò rappresenta una funzionalità il più delle volte efficace, proprio perché fluisce automaticamente (anche se con dei margini di errore), nell’Io non formato a se stesso ciò risulta essere d’intralcio alla realizzazione stessa di ciò che si prefigge o si aspetta, perché identificato soltanto nella propria esperienza senza contestualizzarla; oppure si può agire d’intuito che, infatti, corrispondendo ad una forma di disidentificazione, fa riconoscere meglio il contesto, magari anche in parte inconsapevolmente. Altri esperimenti in cui veniva chiesto ai soggetti di tracciare una linea verticale con il mouse del computer senza poter vedere la propria mano, ma solo quella disegnata sullo schermo, hanno rilevato che, introducendo volutamente una distorsione programmata dal computer, il movimento della mano si adeguava alla perturbazione senza che il soggetto se ne rendesse conto. Un altro esempio di come l’Io, anche se non consapevolmente, potenzialmente possiede una capacità adattiva efficace che, nel percorso sigmasofico, si orienta a consapevolizzare e potenziare.

Il richiamo cosciente dei ricordi è un processo creativo

Nelle precedenti lezioni abbiamo già affrontato le caratteristiche della memoria e le sue diverse modalità funzionali e non, correliamo ora quanto trattato alla funzione delle inferenze inconsce. Sappiamo che la memoria è un modo per rivivere esperienze pregresse, ma può modificare, insieme all’apprendimento, anche il comportamento futuro, ciò accade spesso, senza che ce ne si rende conto. A tal proposito, l’esistenza di patologie neurologiche, come gravi forme amnesiche (in seguito a lesioni del lobo temporale), possono evidenziare questo meccanismo. In questi pazienti viene intaccata la memoria episodica (inerente alle esperienze di vita), mentre rimane intatta quella procedurale (implicata nell’acquisizione di compiti funzionali), è in questo tipo di memoria che lo stato di coscienza ha un ruolo marginale. Pertanto questi pazienti non pJerdono capacità come quella di andare in bicicletta e possono acquisirne addirittura di nuove con una velocità e una dimestichezza congrue, tuttavia possono assolutamente non ricordare di aver imparato ad eseguire quel determinato compito, stupendosi di essere capaci a eseguirlo.

Questa modalità di funzionamento
anche in presenza di gravi discrasie
testimonia la tendenza delle forze autorigeneratrici di mantenere il funzionale sistema,
e quindi conservare la capacità di apprendimento rispetto a quello della memoria.

Ma, anche in condizione di normalità, spesso è possibile apprendere nuove informazioni in maniera inconscia. In tal senso sono stati fatti alcuni esperimenti in cui a dei soggetti veniva presentata una successione di accensione di quattro tasti e chiesto loro di accendere più rapidamente possibile il tasto che si sarebbe acceso, ovviamente non venendo informati prima dell’ordine di accensione. I risultati misero in evidenza che le risposte divenivano più rapide man mano che predicevano la successione, senza che essi sapessero descrivere la sequenza stessa. Ancora una volta un esempio di come l’inconscio veicola sempre informazioni delle quali sta appunto alla componente conscia accorgersi. Più l’Io indaga se stesso, più tali informazioni diventano accessibili.

In altri esperimenti veniva presentata una lista di parole, poi nella fase del ricordo, alla stessa venivano aggiunte delle nuove parole, che i soggetti dovevano riconoscere. Nei pazienti amnesici questo compito è molto difficile e sostanzialmente riferiscono come nuove quasi tutte le parole mostrate, nonostante ciò, l’attività cerebrale risvegliata dalla lettura delle nuove parole era diversa da quella risvegliata dalle parole nuove. Anche nei soggetti normali, può accadere di confondere occasionalmente le parole nuove con quelle mostrate in precedenza, ma anche in questo caso l’attività cerebrale è diversa in base alle parole effettivamente già memorizzate anche se non riconosciute. Ancora una volta è il disallineamento tra le varie componenti di sé quello che determina il non riconoscimento consapevole, ma che l’inconscio in qualche modo registra. Così, al contrario può accadere che una persona riferisca come già appresa una parola nuova, in quel caso si tratta di falsa memoria. Ciò evidenzia il fatto che

la memoria sia un processo creativo,
appunto perché le memorie coscienti provengono da
ricordi consci ma anche da conoscenze inconsce,
l’esperienza di ognuno media questi potenziali errori percettivi-mnemonici.

In caso di amnesia alcuni pazienti, pur non potendo ricordare eventi recenti, ne forniscono descrizioni dettagliate talvolta estremamente improbabili. Questo può accadere per non accettazione da parte del paziente della sua difficoltà, ma anche perché, in questi casi, le credenze di tali pazienti non sono mediate (e limitate) dalla loro esperienza di vita. Tuttavia, se le nostre capacità mnemoniche consce e le nostre percezioni consce fossero troppo vincolate dalle nostre esperienze pregresse non sapremmo apprendere qualcosa di nuovo.

 I meccanismi nervosi con cui i nostri convincimenti si acquisiscono e si fissano sono stati studiati finora soltanto marginalmente.

Limiti dello studio conscio/inconscio e il resoconto soggettivo

Nel corso del tempo le ricerche si sono scontrate con l’impossibilità di esplorare l’intera gamma dei processi consci e inconsci basandosi sul comportamento osservabile, appunto perché non è detto che un soggetto che sia compiendo un’azione finalizzata sia necessariamente consapevole degli stimoli che evocano l’azione o perfino dell’azione stessa. D’altro canto, il metodo introspettivo adottato per rilevare i dati psicologici ottenuti dalle diverse scuole di psicologia produceva risultati diversi. Ulteriori esperimenti in tal senso, prevedevano una sequenza di oggetti familiari e sconosciuti per cui il soggetto (o la scimmia) doveva premere un pulsante in coincidenza del riconoscimento dell’oggetto familiare, ciò rilevava quindi un resoconto soggettivo conscio; se l’oggetto non veniva riconosciuto, il soggetto doveva indovinare, e questo determinava molte risposte sbagliate. Tuttavia l’introduzione della possibilità di esprimere l’insicurezza rispetto al riconoscimento dell’oggetto familiare ridusse notevolmente il margine d’errore, ciò fa pensare che quindi sapesse quando stava per indovinare la risposta.

I metodi di visualizzazione cerebrale possono confermare i resoconti soggettivi, infatti durante un’attività mentale, come immaginare una persona o muovere una mano, si registra un’attività neurale nella zona cerebrale corrispondente, meno intensa rispetto l’azione concreta ma più intensa rispetto l’attività di riposo. Questo può essere considerato una conferma indipendente rispetto al resoconto soggettivo.

Inganno del resoconto soggettivo, simulazione e auto-indagine

Tuttavia, non si può essere certi che ciò che viene riferito dal soggetto sia necessariamente veritiero o congruo. Ad esempio un paziente amnesico può riferire di non riconoscere un familiare anche se le sue risposte fisiologiche (rilevate con l’elettroencefalogramma o la conduttanza cutanea) rilevano il contrario, ma

il resoconto soggettivo corrisponde all’esperienza per lui conscia,
anche se il suo inconscio sa delle cose che egli non sa di sapere.

È questa una condizione in cui possiamo affermare di trovarci tutti, sempre, considerato che oltre ai contenuti emotivi, sensoriali è la fisiologia energetica stessa ad essere per lo più inconscia, e che questa per entanglement è parte di intere aree dell’Universi-parte transfinito ancora inesplorate.  Ci possono essere altri casi in cui il paziente riferisce di non ricordare, in assenza di lesioni cerebrali, per cui può essere un simulatore che sa di mentire (e potrebbe essere smacherato sottoponendolo al test per amnesici per cui deve riferire di riconoscere le parole presentategli precedentemente in una lista, rispetto ad altre aggiunte sulla lista successiva, in questo caso, molto probabilmente i suoi risultati sarebbero peggiori di quelle che avrebbe potuto dare per puro caso, proprio per la tendenza a negare il riconoscimento delle parole già viste, rispetto a un vero amnesico che, non potendone riconoscere nessuna, tira a indovinare). Ma esiste anche la simulazione inconscia, quindi senza l’intenzionalità di mentire. Anche in questo caso, i pazienti con questa caratteristica sottoposti allo stesso test ottengono risultati peggiori rispetto alle risposte casuali, e questo è un meccanismo simile che, secondo i neuroscienziati, potrebbe avvenire nei soggetti ipnotizzati, che affermano di non ricordare quanto appena avvenuto in quella condizione. In questo caso avviene una dissociazione tra l’area del cervello che registra l’esperienza e quella che sta creando la simulazione. Esistono simulazioni isteriche momentanee rispetto la vista, il movimento (come la cecità isterica o la paralisi isterica) come l’amnesia isterica. Attualmente, la neuroscienza è ancora molto lontana dal comprendere i meccanismi fisiologici e cognitivi alla base di questi disturbi. Ma, alla luce di quanto finora esposto, la chiave è sempre l’Io che indaga se stesso: più lo fa realmente più può ottenere informazioni su di sé, l’altro, l’ambiente e sperimentare stati di coscienza non ordinari ed, essendo più allineato alle forze che lo costituiscono, non produrre discrasie.

In conclusione

Attualmente, non è più possibile tracciare un confine tra sfera fisica e sfera mentale, perché, come dimostrato da patologie esistenti, una causa fisica può dare adito a una turba mentale e viceversa. In Sigmasofia consideriamo l’Io-soma (e l’autopoiesi) lo stesso processo per cui, in ogni caso, un’evidenza somatica ha il suo correlato psichico e viceversa. Nonostante riteniamo di avere una grande consapevolezza di noi stessi, il controllo delle nostre azioni è per lo più inconscio. Questa affermazione, anche in ambito scientifico, dovrebbe rimetterci a posto rispetto l’amplificazione che spesso abbiamo di noi stessi! Per esempio, molti aspetti del controllo motorio avvengono inconsciamente in quanto le sensazioni a feedback sono soppresse attivamente: è il motivo per cui non possiamo autodeterminarci il solletico in quanto sappiamo cosa aspettarci, mentre non possiamo saperlo se è qualcun altro a farcelo, così per altre sensazioni tattili. Un’alterazione delle attività cerebrali può determinare stati allucinatori o dissociativi, come nella schizofrenia per cui si ha la sensazione per esempio che il proprio corpo sia mosso da altre entità e non da se stessi, appunto perché le conseguenze delle azioni sensoriali non vengono soppresse. Tuttavia non sono ancora conosciute, in ambito scientifico, cosa determini queste anormalità a livello neurale.

Più si procede nel percorso formativo a se stessi più si può essere consapevoli di processi inconsci e, di conseguenza, controllarli, il che comprende anche il lasciar fluire modalità di funzionamento che non ricadono nel range ordinario, da utilizzare come risorse e non discrasie se appunto sapute gestire in conseguenza di un lavoro di autoconsapevolezza, lasciando aperta la porta allo

stupore dell’apprendere continuo.


Note

[1] Psicoterapia cognitivo-comportamentale. Molto sinteticamente, essa si fonda sull’apprendimento di metodi per cambiare pensieri e, conseguentemente il comportamento, in base ad esperienze associative differenti rispetto a quelle di provenienza, determinanti una particolare una problematica.


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