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La dipendenza e la contro-dipendenza nella malattia

-relazione Sophy International Congress 2018-

Nella malattia, la limitazione o la perdita della propria autonomia-indipendenza è una tematica molto complessa, piena di sfumature e spesso di contraddizioni. L’incapacità funzionale (motoria) è direttamente proporzionale alla necessità dell’aiuto altrui, ma questa proporzione, in apparenza semplice, non è affatto così matematica: i suoi confini sono spesso interpretabili, personali, proiettivi, non solo da parte del malato ma, ancora più spesso, da chi lo accudisce, soprattutto se non ne ha competenza tecnica, e questa figura in genere è il familiare. Ricordiamo che il malato in questione è un individuo, con tutte le sue caratteristiche psico-emozionali, le sue attitudini, le sue problematiche, le sue avanguardie, la sua storia di provenienza, che la maggior parte delle volte ha incontrato la malattia a un certo punto della sua vita, ma che prima svolgeva le sue attività senza apparenti limiti. Tutte le sue caratteristiche continuano ad esistere, nonostante la malattia. Questo è una realtà tanto scontata quanto non valorizzata. Infatti, spesso, la malattia ha un potere di assorbimento pressoché totale, tanto più è grave e, a volte, sembra cambiare, se non addirittura cambia, i connotati relazionali della persona rispetto se stessa, della persona rispetto gli altri e degli altri rispetto la persona. Questi cambiamenti ruotano prevalentemente proprio intorno al suo grado di autonomia. Ma, che cos’è l’autonomia? L’etimologia greca ci aiuta nel delinearne le caratteristiche: il termine deriva da autos (stesso, da sé) e nomos (legge, usanza, consuetudine), quindi significa agire in base alle proprie leggi, consuetudini, senza ingerenze o condizionamenti altrui. Questa ingerenza altrui, in caso di impossibilità motoria, è indispensabile per assolvere alle normali attività quotidiane e, a volte, ad essa è legata la sopravvivenza stessa. Però, come detto, se la persona è in grado di intendere e di volere, la sua dipendenza dall’altro riguarda alcune funzioni pratiche e non la libertà, l’indipendenza di espressione. Invece, spesso, questi due concetti è come se si confondessero, come se la persona malata diventasse la malattia, il problema, e non si autoriconoscesse più come persona, con tutte le sue dinamiche interne delle problematiche motorie, ma diventasse soltanto la problematica motoria. Sono una fisioterapista, perciò conosco esattamente l’implicazione della mancanza di autonomia, sotto diversi punti di vista, quindi con quanto affermato non sto sminuendo la difficoltà reale, e quotidiana, che la persona incontra costantemente, al contrario, pur comprendendola, e con il mio lavoro aiutandola in questo, vorrei valorizzare la persona al di là, oltre la dipendenza, proprio perché a volte è un aspetto inevitabile della malattia stessa. Il non poter compiere degli atti in autonomia (come il camminare, il mangiare, la cura personale, il guidare, il non poter usufruire di alcuni luoghi, ecc.) necessariamente comporta una grande frustrazione. Proprio perché, nonostante l’identificazione nella malattia, la persona è viva e prova, ovviamente, sentimenti, stati d’animo, pensieri ecc. e, il più delle volte, ha vissuto libera in precedenza, raramente è disposta ad accettare di non poter più badare completamente a se stessa.
Accettare non significa rassegnarsi. Accettare significa essere consapevoli dell’attuale condizione, funzionale, rispetto ciò che non si può più fare, ma anche rispetto ciò che si può ancora fare o fare in modo diverso. Io estenderei tale presa di consapevolezza alla condizione psico-corporea complessiva o, per entrare nel merito dell’approccio sigmasofico che io propongo, alla condizione Io-somato-autopoietico. Questo lavoro di consapevolezza riguarda infatti i vari aspetti della persona, nelle varie componenti di cui è composta: quella fisica (somatica), psico-emotiva (dell’Io) ed energetica, ossia del campo di forza vitale che consente a quell’essere di essere vivo (l’autopoiesi). Tale approccio più ampio, per me, si è reso necessario proprio perché ci si relazione con la persona e non soltanto con la parte malata, alla quale generalmente la fisioterapia, in senso stretto, è invece rivolta. Tornando alla definizione di autonomia, se constatare che il non poter camminare da soli, per esempio, è facilmente inquadrabile come una perdita della propria indipendenza, è altrettanto facile riconoscere la libertà oltre la dipendenza? la dipendenza nell’autonomia motoria? La libertà di dipendere?
Nel mio percorso formativo e nel condurre altre persone, ho sperimentato direttamente che le prime forme di dipendenza riguardano la relazione con se stessi: con i propri condizionamenti, le proprie paure, le proprie dinamiche irrisolte, che compromettono, interferiscono, costituiscono delle vere e proprie ingerenze, spesso conflittuali, con ciò che un’altra parte di noi vorrebbe invece esprimere. Se non ci si conosce in profondità, che non significa limitarsi a sapere come siamo fatti, ma significa aver indagato il perché siamo fatti proprio in quel modo, e averlo indagato con metodo e costanza, mettendosi visceralmente in discussione, avendo saputo guardare negli occhi i propri mostri, ed anche le proprie risorse, rimarremo richiusi nelle gabbie, a volte dorate, che ci siamo autocostruiti, rimarremo immobili nei nostri compromessi, nelle nostre superficialità, nell’appiattimento coscienziale, pensando di avere dei punti di riferimento…destinati a crollarci addosso ad ogni difficoltà. Lo dico con un’immagine purtroppo attuale (probabilmente non a caso, data l’epoca): può accadere come ad alcune costruzioni moderne, dotate di ogni comfort, o le strade, i ponti di recente costruzione che ad ogni imprevisto, un temporale, un passaggio per il quale non sono calibrate, pur essendo state costruite per questo, crollano come fossero di sabbia. Nell’Io può avvenire lo stesso meccanismo: costruisce dei riferimenti, ma alcuni di questi non sono adatti a durare nel tempo, a resistere alle intemperie che la vita prima o poi ci riserverà, perché sono stati costruiti senza reale competenza, con fretta e con superficialità. Esiste anche nell’Io quell’istanza “mafiosa” che sacrifica la qualità in nome di qualche ritorno immediato e spesso effimero. Infatti, per rimanere nello stesso esempio, non può sfuggire il fatto che nell’antichità si siano costruite opere (spesso di alto valore anche simbolico-spirituale) di cui ancora oggi godiamo, e ai nostri giorni assistiamo sempre più frequentemente ai crolli di costruzioni che, a paragone delle precedenti, hanno pochi anni di vita. Un Io che nel tempo non ha costruito delle basi solide sulle quali basare la propria personalità è destinato a incastrarsi, anche per anni, su determinate dinamiche o situazioni che riferisce di non saper gestire. Se a questa situazione si aggiunge una malattia invalidante, il quadro è chiaro che si complichi. Poiché, come detto, la parte malata non si può scollare (e quindi trattare) dalla personalità nella quale è inserita, l’autonomia funzionale, e quindi la dipendenza dall’altro, non può essere trattata come una questione soltanto motoria. Nella metodica da me proposta, che prende il nome di fisiosofia, integro la conoscenza anatomo-fisiologica e patologica a quella dei meccanismi dell’interiorità appresi in Sigmasofia. Quindi l’approccio al ricercatore su se stesso, che manifesta una patologia funzionale, prevede un lavoro introspettivo, partendo dal vissuto emozionale e relazionale rispetto alla sua patologia. Nella maggior parte dei casi, anzi,  in tutti i casi da me seguiti o osservati fino ad oggi, la persona si autopercepisce molto più invalidata di quanto non lo sia effettivamente. Questo è dovuto proprio al fatto accennato precedentemente, ossia all’identificazione pressoché totale nella malattia. La persona diventa quello che non può più fare. E questo a volte è uno scoglio insormontabile, per chi non decide di occuparsi con metodo della propria interiorità. Per chi decide invece di farlo è uno scoglio molto difficile da destrutturare, ma se ciò avviene, è certo che la qualità di vita migliora nettamente e definitivamente. Se il termine autonomia significa riconoscere le proprie leggi in base alle quali disporre le proprie azioni, la fisiosofia mira esattamente a questo. Si parte infatti da un lavoro di destrutturazione delle basi, dei riferimenti non solidi, per valorizzare quelli che lo sono e ricostruire e valorizzare elementi non deteriorabili della propria interiorità: per ritrovare la propria sicurezza ontologica. La prima tematica sulla quale il ricercatore è invitato ad indagare è il corrispettivo interiore della parte fisica colpita. Questo lo guida nei nodi emozionali che hanno bloccato o reso meno fluida qualche funzione/situazione di vita. Quando il processo invalidante è irreversibile, l’altro diventa un’estensione di sé per poter (…). Ciò inevitabilmente innesca delle tematiche complesse e delicate. Il dover chiedere aiuto è una tematica problematica spesso anche per chi non ha una malattia. A volte, non si sa chiedere, perché chiedere, per alcuni, può significare l’evidenziare la propria incapacità, la propria mancanza di autonomia, come se chiedere l’aiuto altrui sminuisse la propria capacità. Quindi il non chiedere diventa un atto dimostrativo (verso l’altro ma, soprattutto, verso se stessi), ma può essere anche un modo  per sottolineare la mancanza di aiuto dell’altro che non ha previsto, anticipato la nostra richiesta. Ci si aspetta dall’altro che questi risponda alla nostra necessità senza doverla evidenziare; più spesso di quanto ci si accorga, lo si pretende. In altri casi, il chiedere è una sorta di test che facciamo all’altro per verificare la sua disponibilità verso di noi e, se risponde ai nostri parametri, tale persona è degna del nostro giudizio positivo, ma, se questi disattende le nostre aspettative diventa un “mostro di egoismo” ai nostri occhi. Difficilmente ci si chiede se davvero abbiamo bisogno proprio di quella persona per fare quella determinata cosa, se rispettiamo una modalità o una tempistica diversa dalla nostra o se sappiamo incassare un No, senza che questo diventi motivo di recriminazioni a non finire. Spesso sono semplicemente ferite narcisistiche, perché più volte di quanto si pensi, in realtà siamo in relazione con noi stessi e l’altro lo facciamo esistere in funzione delle nostre esigenze, la richiesta diventa, così, un oggetto mediatore di altro. Quando di mezzo c’è la malattia tutto si complica, si amplifica, non solo per il malato, ma anche per colui che l’accudisce. Queste dinamiche rispetto il chiedere, quindi l’aver bisogno, come possiamo constatare, risiedono in tutti, non necessariamente nel malato. È ovvio che il malato ha delle esigenze concrete, ma la concretezza di esse non rende meno reali i meccanismi che si celano dietro quella richiesta. Tutti gli esempi fatti finora proviamo a calzarli sul malato: chiedere l’aiuto altrui per alcuni può corrispondere allo sminuire la propria capacità. Per una persona invalida, spesso chiedere coincide realmente col “da solo non posso”. Il problema nasce con la difficoltà, comprensibile, dell’accettazione di non poter più fare da solo un’azione per i più magari automatica. Ma, una volta umanamente compreso, o si va avanti e si decide di intervenire o questo dispiacere diventa un blocco sul blocco. Quel “mi vergogno di uscire in carrozzina” diventa non esco, quel “non voglio essere un peso per gli altri, non voglio che gli altri mi vedano così”, diventa non partecipo alla vita sociale (…), e si finisce con la rinuncia progressiva di cose che si vorrebbero fare, ma per i meccanismi suddetti, non tanto per la ridotta capacità motoria. Ed è questa la vera impotenza rispetto se stessi, la vera dipendenza da meccanismi irrisolti, non rispetto la parte malata. Porto l’esempio di una mia paziente con difficoltà di deambulazione, una persona, a sua detta, molto dinamica prima della malattia, che amava uscire con le amiche e fare con loro lunghe passeggiate Dopo un iniziale periodo dove sembrava aver accettato la sua nuova situazione, riadattando le proprie abitudini, e non rinunciandovi, ne è seguito un altro in cui riferiva di sentirsi molto stanca, di aver paura di essere peggiora, ma io non notavo nessuna significativa differenza motoria. Portandola a riflettere su questo elemento, un giorno le dissi se tante volte si fosse resa davvero conto che dalla sua malattia non era guarita, che avesse preso coscienza che la sua aspettativa di guarigione, anche se razionalmente sapeva che ciò non sarebbe potuto accadere, fosse stata disillusa. Scoppiò a piangere dicendomi che sì, forse aspettava il momento in cui sarebbe nettamente migliorata, pur sapendo razionalmente che questo non sarebbe avvenuto. È esattamente questa la fase più difficile da attraversare, prendere atto che le condizioni motorie non miglioreranno, ma, allo stesso tempo, prendere atto che l’interiorità ha possibilità di movimento decisionale rispetto al farsi schiacciare da questa constatazione e trovare delle alternative per non rinunciare alle proprie azioni. Per questa paziente, dopo questo pianto liberatorio, è scattata la motivazione alla non rinuncia, così, accettando di chiedere al figlio di accompagnarla, o in altre situazioni, a chiamare un taxi, riprese a frequentare le sue amiche e a camminare con loro per tratti molto più lunghi di quanto si aspettasse, superando la vergogna di doverlo fare con l’aiuto. Improvvisamente si è sentita fisicamente molto più energica e ha ricominciato a cucinare, a fare quello che poteva per riordinare casa, senza sentirsi menomata nell’accettare l’aiuto. In questa accettazione c’è libertà. La condizione di necessitare di aiuto, anche (e soprattutto) se non accettata, spesso si mischia alla richiesta di attenzione, che altrettanto spesso condiziona molto le relazioni del e con il malato. Questo accade sia per il meccanismo del “test di disponibilità” prima menzionato, sia per alterazione della percezione delle effettive capacità. La preoccupazione, la sofferenza, il disorientamento per la nuova condizione, oltre alla difficoltà di accettazione, possono comportare delle vere e proprie alterazione dell’autopercezione, in difetto. Quindi, spesso, la persona, per insicurezza, pensa davvero di non essere in grado di fare delle cose e diventa dipendente dall’altro molto più di quello che effettivamente potrebbe essere. Anche in questo caso, il lavoro del fisioterapista, nello specifico, incontra una tematica non motoria ma che si riflette in quella sfera. Altre volte, la malattia, come accennato, diventa un elemento manipolatorio del proprio caro, per ottenere quelle attenzioni che tanto si desideravano, e la richiesta una compensazione al proprio bisogno affettivo. In genere, in questi casi, ciò innesca un grande senso di colpa verso il malato da parte del familiare, il quale vive la sensazione di non fare mai abbastanza, di essere costantemente sotto giudizio, fino a condizionare la propria vita, la propria famiglia. Ciò accade perché la persona in questione ha a sua volta delle problematiche irrisolte rispetto la persona che assiste e, ovviamente rispetto degli aspetti di sé, a prescindere da lei. Se, ad esempio, il familiare è un figlio, che ha vissuto intensamente il legame affettivo genitoriale ma al punto tanto che questo sia stato un ostacolo alla creazione della propria indipendenza, quando la figura di riferimento si ammala, il senso di colpa nel provare la pulsione di creare il proprio spazio può essere un vero e proprio blocco al tale realizzazione. Allo stesso tempo, il genitore che aveva la tendenza a legare a sé il figlio/figlia, fa della malattia uno strumento formidabile a tal fine. Spesso tutte queste dinamiche “ante-malattia” sono inconsce e tali possono rimanere, ma con quell’impotenza funzionale in senso stretto poco hanno a che fare, o meglio, sono l’impotenza funzionale complessiva. L’essere consapevoli di tutto ciò, attraverso il vissuto, comporta un riequilibrio, per cui la persona non rinuncia a fare ciò che vuole, ma è determinata e investe le proprie energie per trovare il modo della sua personale realizzazione, anche attraverso l’aiuto altrui, e se questo non è impersonificato dal proprio “prescelto”, trova un sostituto. Chiedere non diventa un problema, chiedere non diventa una pretesa, l’eventuale “No” non è una devastazione interna, ma diventa assunzione della frustrazione e motivazione a cercare un’alternativa. Accettare di aver bisogno dell’altro non intacca la propria dignità, il proprio talento, la capacità di pensare, di emozionarsi, di volere (…), è parte della propria sicurezza ontologica. E questa affonda le proprie radici oltre l’emozionalità, lo psico-corporeo, anche se questi è un passaggio necessario e imprescindibile, per risalire alla fonte che genera vita, ossia ciò che ci permette di emozionarci, di pensare, di volere (…) al di là del suo contenuto: l’autopoiesi, l’innato, l’unica vera forza dalla quale dipendiamo, al di là della nostra consapevolezza, per il solo fatto di essere in vita, quindi tanto vale scegliere questa di dipendenza. In questi riconoscimenti, vissuti, inizia a intravedersi la libertà (fino alla libertà non come opposto della dipendenza), nell’accettare la propria dipendenza inizia a delinearsi l’azione di superamento.


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